Storia di un’assenza quotidiana
di Dacia Maraini
“Mia mamma è buona e sempre felice di me e perché io sono felice di lei e la mia vita è bella e la tua vita mamma?”
In questa lettera appuntata con uno spillo contro un cielo tenerissimo dai bianchi che si mescolano allegramente agli azzurri, si può rintracciare lo stile della pittura di Antonella Cappuccio; una apparente abbandonata serenità, un apparente fanciullesco ottimismo sotto cui si nascondono tensioni e tristezze violente.
Vediamoli un momenti questi quadri ad uno ad uno: un vestito grigio goffo e modesto che fa da pensare a un corpo di donna sformato dalle gravidanze e dalle fatiche domestiche, un cappello d’uomo appeso ad un gancio contro una parete dai disegni festosi, una giacca di tweed a spina di pesce dalle maniche logorate dall’uso e il colletto spiegazzato che conserva la traccia di un collo umano, un grembiule a quadretti bianco e arancio sopra cui si stagliano delle pietre, un paio di pantaloni neri su cui si siede una bambina che gioca, una veste scura di donna che tiene fra le braccia un neonato avvolto in uno scialle rosa confetto.
Tutte queste figure però non sono persone ma involucri. Le presenze che vengono rivelate contro cieli soffici e fondali grondanti di fogliame verdissimo sono in realtà delle assenze. Colui che guarda è chiamato a seguire quadro dopo quadro la traccia di un fantasma, di un corpo senza testa, senza braccia, senza piedi, senza mani, che pure si nasconde muto e attonito dentro questi vestiti dilatati e consunti.
Questa assenza non ha niente di drammatico, di violento.
Non è una denuncia contro il potere reso invisibile dalla corruzione. È una constatazione poetica e dolorosa di una generale assenza quotidiana. L’assenza di chi patisce, di chi subisce, di chi appunto non c’è perché ha alientato se stesso ai valori, ai miti, all’ideologia dominante, di chi ha regalato se stesso per un piatto di lenticchie.
Curiosamente i soli testimoni di questa dissoluzione umana sembrano essere le pareti, le tappezzerie, i cieli, le stanze, le strade, che comunicano una tranquilla e gloriosa gioia di esistere.
Assistiamo così ad una strana scomposizione ovvero inversione formale: gli oggetti inanimati prendono colore e forma, si fanno veri, animati, e gli esseri umani diventano irreali, sfuggenti, senza vita.
La colorata dolente assenza riguarda sia gli uomini che le donne. Ma mentre per gli uomini si rivela saltuaria e rimediabile, per le donne sembra essere costante e irrimediabile.
Le donne sono la presenza più corposa e struggente di questi quadri. Esse passano da una infanzia spettrale ad una adolescenza scolorita, mutilata, per continuare con una giovinezza dalla consistenza calcarea, da cui poi entrano in una maternità fantomatica e finiscono con una vecchiaia che ha la palpabilità della stoffa bruciata.
La bambina sorride, tutta bianca, gessosa, senza gambe, accoccolata sopra una roccia scura che mette in risalto, per contrasto la sua inconsistenza sorridente e aerea. La ragazzina gioca pensierosa sopra le ginocchia di un padre che si fa corpo solo dalla cintola in giù. La scolara ha già perso la testa, le mani, le gambe, si è ridotta ad un grembiule gonfio di nulla che se ne sta in piedi contro un cielo molle scolorito. La giovinetta si è trasformata in una statua grigia e porta un velo nero sulla faccia composta, da morta. La moglie è un torso di manichino ravvivato da una sottoveste stile novecento decorata da disegni eleganti e lugubri. La donna incinta è una pelle umana appesa ad un attaccapanni, i seni e il ventre bene in vista nella loro trasparenza cadaverica. La madre è un vestito verde-blu dal cui collo senza testa spunta una piantina striminzita. La vecchia, sorretta da un bastone nero e un cappotto anonimo che si chiude contro un fondo chiaro, abbacinato.
La chiave figurativa è il surrealismo. Ma un surrealismo rivisitato con occhi consapevoli. Un surrealismo rinato dall’amore doloroso della pittrice per la realtà sfuggente, irrapresentabile e illegibile di un tempo di transizione fra la vecchia affascinante barbarie storica e una nuova sconosciuta ammaliante barbarie senza nome.
1976, Roma – Galleria Sirio, mostra “Un’Assenza Quotidiana”