L’Universo e il Labirinto
di Duccio Trombadori
Lumeggiando nel meccanismo del suo pensiero il ritorno al mestiere, per liberare in pittura la potenza visionaria della fantasia, Giorgio De Chirico scriveva che “bisogna scoprire l’occhio in ogni cosa”. L’intuizione poetica sottolineava l’importanza che il pittore deve sempre assegnare a “ciò che lascia presentire”, suscitando nello spettatore un interesse per ciò che va oltre lo spettacolo della superficie ed apre la via ad ulteriori, cangianti, panorami dell’immaginazione.
Muovendo da un analogo, quasi istintivo richiamo psicologico, Antonella Cappuccio procede rovesciando il controtipo di un volto umano sul piano di una carta geografica immaginaria: e ne ricava, per rilievi e sottrazioni d’ombre una bocca socchiusa, l’accenno di un naso, il fossato di occhi che interrogano l’osservatore e si dissolvono al tempo stesso nello spazio. Qui, più che guardare, siamo noi che alla fine ci sentiamo osservati da un “occhio” che, indagando, apre man mano lo scrigno del nostro immaginario.
In questa trama di riferimenti visivi e di corrispondenze evocate, la pittrice “scopre” il suo ideale autoritratto sciogliendolo metaforicamente sull’epitelio del mondo, in una cartografia delle sovraimpressioni portata ad occupare lo spazio convenzionale del quadro.
La doppia finzione e la doppia superficie, immaginate come veli, o fondali, di una identità colta per accenni rappresentano una disposizione sentimentale che diventa coerenza dello stile. La pittura di Antonella è da tempo impegnata ad enucleare forme implicanti valori simbolici. Nella persuasione che “il faut savoir pour pouvoir” – come diceva Courbet – la qualità dell’opera si afferma nella tessitura della materia, nel procedimento artigiano e nella meticolosa importanza che gli viene assegnata nella costituzione di immagine. Ogni linea, ogni velatura, ogni paziente trama di forme composta nel quadro, nasce da una esigenza necessaria di espressione. Ed è una teoria complessa di sensazioni visive che appaiono intrecciate e sono pur sempre la evidente sedimentazione di pensieri, correlativi oggettivi di esperienze vissute, parabole ed allegorie di valori auspicati. Ma di quali valori stiamo davver parlando? Il nucleo essenziale della ispirazione ha incitato la Cappuccio a descrivere analiticamente un “labirinto”, individuato come chiave di una dialettica espressiva fatta di emozioni simultanee e di meditate architetture compositive.
L’artista vuole così mettere tutto il mondo dentro il quadro, ed esprimere la vita nella forma, dopo averla imprigionata nelle solide maglie della visione dipinta. A volte, penso che Antonella abbia il dono della sinestesìa, che consiste nel percepire la immediata corrispondenza di segno e suono, musica, forma e colore. O mi piace pensare che sia così, visto che tutta la sua intenzione espressiva tende alla unificazione dei valori estetici e dunque ad evocare una unità più alta, trascendente la stessa fattura dell’opera.
L’artista coltiva da sempre una attenzione filosofica che si affida ai poteri della sensibilità governata dal mestiere: anche per questo le sue visioni si presentano come attraenti e allusive sciarade che impongono lo sguardo in profondità, quasi come una lettura da effettuare nel corpo dell’opera per andare aldilà di essa navigando in mezzo a digressioni letterarie o poetiche, quando ci si imbatte in frasi-ricamo, in citazioni illustri, oppure in simboli paradigmatici ed evocativi. Scenari di tempesta, con acqua e fuoco, realizzano atmosfere di un diluvio senza tempo, dove l’uomo compare per accenni, o nell’incontro d’amore, o in solitudine terrestre, appena migrato dai furori degli elementi, al cospetto di una luce esterna, modellata sul quadro fino a dissolvere la figura in più angeliche e assolutorie simbiosi. Il labirinto è condizione della esistenza, allegorica figurazione dell’attraversamento nel tempo e della sua trasfigurazione: la Cappuccio frammenta l’immagine e compone il racconto in una narrazione che non ammette la perdita di tasselli visivi egualmente convergenti al punto di approdo luminoso in cui la forma si estingue assieme alla altalena bilanciata dei colori.
Un moro sapiente, elegante e delicato di dipingere contrassegna la poetica di Antonella che travalica il manierismo per sovrabbondanza di sentimento. Anche per questo il suo labirinto vuol essere occasione per esprimere una totalità di esperienze e di emozioni. I contorni sono sempre velati e mimano una sorta di fluente melodìa che espone fantasmi ed illusioni mediante il gusto della vibrazione e del continuo “relais” della parola e della immagine.
Penso, per esempio alla grande tela su fondo rosso dove teste di donna incastonate in serie stanno a condire visivamente una frase poetica (“… Amore schianta in me la ragione”) che riguarda in filigrana l’alternarsi della passione fondamentale nell’animo femminile e al tempo stesso indica un motivo di fondo: la pittrice non oserva le individualità in quanto tali, ma le risolve nell’allusivo passaggio di un superiore e vivificante elemento divino – l’Amore, appunto – che tutte le trascende. È il dato autobiografico intercettato come una ideale parabola della femminilità e della sua appassionata linfa vitale, a costituire il centro irradiante della immaginazione: sono i suoi “eroici furori” intesi come memoria, come brama del bello e del buono perseguito dentro i filamenti impercettibili dell’essere, in un misticismo della piena umanità che si risveglia come apparizione del divino. Non si guarda in alto per incontrare la divinità, ma bisogna “venire al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch’egli medesimo esser non possa”.
Ecco dunque una traccia della vocazione allusiva nella poetica della Cappuccio che rimanda ad una nostalgìa della visione ideale e assoluta alla quale si può accedere solo per enigmi, similitudini e figure (“… a nessun pare possibile de vedere il Sole… e la luce absoluta per specie suprema ed eccellentissima, ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nella opacità della materia”).
Il paragone con l’universo bruniano, dominato dalla forza pervasiva dell’Eros, è quasi d’obbligo nel cogliere il nucleo sentimentale di una esperienza espressiva tutta rivolta a riconoscere l’unità nel variare mobile dell’universo, per indicare nella visione “la natura della natura” che è, appunto “l’anima del mondo”.
Questa idea di Natura naturante, di permanente vitalità che circola nella fantasìa di Antonella Cappuccio, si riflette nella attenzione pulviscolare delle atmosfere, la preferenza per gli incroci delle forme, la metamorfosi degli elementi e dei corpi, la circolarità delle inquadrature, la tensione dinamica delle volontà e delle figure complementari e opposte. Vediamo allora il medaglione di una storia di Amore come la parabola della energìa divina che produce effetti di meniniscenza e sogno (l’uomo, accoccolato in una sorta di liquido amniotico, con gli occhi chiusi vede apparire in trasparenza un volto di donna, madre-amante, che in posizione rovesciata pare lo abbracci ma nemmeno lo sfiora, mentre vari amorini gli danzano attorno, tra vapori di un etere a luce diffusa). Ma ancora appare la femmina, in una analoga composizione, che tiene in mano una lama di spada, forse sanguinante, ma non geme né soffre, bensì col braccio sollevato si mostra sorpresa nel coinvolgimento emotivo, verso l’esterno del quadro, come se fosse attraversata dall’incanto impalpabile della scintilla amorosa.
Rossi velati e cangianti, madreperle, azzurri e verdi di varia intensità formano uno spessore solido di pittura che allo sguardo appare come un velo di sottili trasparenze: ed ha il pregio stilistico di rifuggire ogni compiacimento pittoresco che non sia giustificato dall individuazione di un corrispondente sentimento e stato d’animo. E soffermiamoci pure, allora, sulla coppia originaria dei principi vitali, “Creazione e Ricezione”, non a caso raffigurati nella figura dell’uomo e della donna, ambedue metamorfosi fugaci dell’essere, e come attraversate da una furia dileguante di trasparenze: la donna, enunciata da contorni sanguigni che sfumano i capelli nell’aria ed accentuano le protesi di una vitalità sensuale (mani aperte, occhi, bocca, naso e capezzoli del seno); l’uomo, immerso in una luce fredda, siderale, con la muscolatura protesa nell’attimo immediatamente precedente il moviemento, la tensione verso lìesterno e il non conosciuto. Così la dialettica dei sessi prende forma da un sottofondo naturale che in pittura si dispiega in un miscuglio di elementi d’aria e di acqua (velature trasparenti) e linearismi vegetali che alludono ai passaggi di stato, alle transustansazioni di una divinità in perenne movimento e riccamente eccedente di vita. Il panteismo che ispira lo sguardo filosofico del pittore diventa più espòicito e addirittura quasi si dichiara in quella vaga rincorsa di volti (la madre e il bambino) definita per le linee curve dei profili che tagliano in diagonale uno spazio ricurvo, sospeso come nel sogno, e pure tanto vitalmente esibito come necessità di uno svilupp organico, dal cromosoma, al gene, dall’embrione alla persona. L’idea circolare, sferica, della esperienza divina, della natura cangiante dell’essere nelle immagini, della metamorfosi vitale, dell’Eros che attiva le relazioni in tutto il creato, sono ingredienti di una poetica che Antonella Cappuccio mette naturalmente in funzione quando immagina, e quando costruisce i suoi dipinti. Un ermetismo congenito giustifica questo strutturato artificio di immagini apparentemente semplici, eppure affioranti da una miriade di segni, una meticolosa considerazione delle luci interne ai corpi e al fluire delle forme, che non è puro gusto della “maniera” ma studio attento di congiunzione di significante e significato.
Più che la passione letteraria, nella pittura di Antonella Cappuccio vive la necessità di isolare nel simbolo la connessione di senso e pensiero. Certi suoi preziosismi, le citazioni colte, i riferimenti alle grazie e alle ambiguità manieriste, corrispondono alla intenzione di rispondere alla domanda fondamentale sul senso della creazione, e sull’arte, come fondamentale espressione umana, in quanto auto-contemplazione. Vita, Amore, Morte scandiscono nel dipinto il “ritmo della bellezza”.
Già qualche anno fa, commentando i quadri della Cappuccio avevo notato l’originalità del suo “manierismo passionale” che, a prima vista, potrebbe sembrare una contraddizione in termini. Ma che invece segna l’originalità di una vocazione poetica non corriva con le leggerezze postmoderme ed è piuttosto lanciata nella rischiosa avventura di una espressione totale, dalla ricerca di una “verità” e del moso di rappresentarla. La abilità tecnica con riguarda soltanto la fattura del dipinto, ma l’insieme della composizione, cosicché lo sguardo manipola punti di vista e scale di apparizione: corpi, figure, oggetti entrano tutti a far parte di uno spazio sognato, più che reale, dove la prospettiva è cosmica e serve ad indicare la riduzione del fantasma e della realtà ad una sola, coinvolgente immagine. Basti pensare, tra l’altro a quell’inquietante quadro in cui si rispecchiano i segni dello Zodiaco: non sappiamo a chi appartenga quel volto, quella mano d’uomo che traspare da uno spazio indefinito (forse, il Cristo?), ma sappiamo che essa ci corrisponde come un riflesso del nostro vagare nella “notte oscura” della vita attraverso quella baudelairiana “foresta di simboli” in cui speriamo di riconoscere i segni del passato, del presente e del futuro. Forse, però, tutto ciò non è che sogno, o meglio illusione: e la Cappuccio ce lo ricorda proprio attraverso lo sfondamento di una superficie dipinta in cui l’universo definito per accenni nei punti luminosi delle stelle, si trasforma nello specchio di un desiderio umano infinito che vi proietta, come stampate, tutte le sue aspirazioni, fino alla più grande, il ricongiungimento alla natura divina fatta a nostra immagine e somiglianza. Dio come natura, come uomo, come amore: su questa scala di valori è costruito il senso di una espressione figurativa e si modella la qualità di una pittura che, dalla infaticabile confezione artigiana, intende ricavare il succo essenziale di più profonde e misteriose verità. Questo naturalismo divinizzato trova nella immaginazione umana una potenza ascendente, per gradi successivi di percezione e conoscenza, verso la contemplazione/intuizione del segreto ordinamento del mondo: e la pittura ne diventa strumento principale quando si muove a rappresentare l’infinito che, deve essere “infinitamente perseguitato” passando per quel moto circolare che attraversa i diversi “gradi della perfezione” e raggiunge il puro “centro”, la monade originaria, dove il massimo coincide col minimo, e la natura vi si svolge in circolo (“… omnis appulsus, motus, vis, actio, passio, sensus, cognitio ac vita”). Pittrice per vocazione, Antonella Cappuccio compie nel suo lavoro il massimo gesto di devozione e di umiltà piegando l’estetica alla rappresentazione di ciò che la trascende, il sentimento del divino: e in questo paziente, ostinato, originale indirizzo della sua espressione, afferma la misura di uno stile che vuole trovare nell’arte il criterio di più elevate moralità.
2002, Roma – Castel Sant’Angelo. Mostra “Se una mattina camminando”