Lettera
di Gianluigi Mattia
Cara Antonella,
se il teatro è tra le altre cose un galattico vuoto contenitore, uno stratosferico spazio da riempire di fantasmi, di voci “di fuori e di dentro”, di similiumane commedie, allora questi tuoi “costumi” ci sembrano famigliari e ineluttabili come lo è (quasi sempre) il teatro della nostra vita.
Simulacri e metafore dunque, essi hanno assunto attraverso la magia della pittura quell’umanissima corporea ambiguità che tu, riparata dall’incantamento e dall’inquietudine del “sognare”, sembri scansare nel quotidiano vivere. Forse, come quell’adolescente che immagino tu sia stata. Sognante, irresistibilmente portata a praticare il Nobile, il Sublime e quella soave grazia che certo la febbrile quotidianità che ti era dato vivere non possedevano o possedevano in minimo grado.
È che la pittura, quando la si pratica sacralmente perseguendo l’autenticità di ogni suo passaggio e nella ritualità d’ogni nostro gesto, dà voce a presenze complesse, contraddittorie, schizoidi. Spietata, inesorabile, malgrado noi, essa sà riconoscere l’infelicità conficcata nel buio dei nostri bisogni profondi, mette alle corde le grandi tensioni morali, le nobili aspettative.
D’altra parte tu, tanti anni fa appunto, questo mondo adulto e cinico del teatro con i suoi camerini odorosi e abborracciati, il caos pazzesco delle sartorie, le gerarchie da rispettare, i divismi esibiti, gli isterismi incontrollabili dei suoi protagonisti lo hai conosciuto davvero e molto da vicino per necessità di lavoro e come Alice nel paese delle Meraviglie sei caduta nella vertigine del suo profondissimo pozzo; metafora questo, del sogno come vita e della vita come sogno.
Da questo smarrimento persistense sono, forse, nati questi dipinti nella serie di dodici.
Questi abiti-costumi, nella probabile intenzionalità di veri e propri Ritratti ce li hai restituiti come “luoghi” solo apparentemente riconoscibili. Li hai sognati?, ti si sono rivelati malgrado te? A me giungono dunque come metafora contraddittoria e molteplice dell’essere, del suo spaesamento, del suo essere smarrito a sé.
Forse ognuno di essi riconduce a una parte irrinunciabile di te, della tua identità scissa e ne è la sua voce cantante.
Forse, con una procedura asistematica che è tipica del fare pittura essi hanno costituito una onesta, a te stessa, ricognizione del tuo e del nostro labirinto.
In essi si scorgono scarti logici improvvisi, ammiccamenti a luoghi paralleli che fanno slittare altrove le chiavi d’accesso al cuore dell’immagine con tempi e modi stilistici a volte formalmente incongrui ma fatalmente “esatti”.
Un citazionismo “colto” dunque, come ha giustamente rilevato Duccio Trombadori nella sua peraltro bella e puntuale presentazione al catalogo della tua recente personale presso il Palazzo Ducale di Mantova dove assieme a questi dodici dipinti ne esponevi altri a tema Sacro e altri ancora sul tema delle Chimere.
Nella tua pittura a volte sembra prendere corpo l’eterno, infantile, funambolico miracolo dell’apparire della “cosa” (le immagini dell’immaginazione) da un gesto rapido e sapiente, perché s’impone a questo modo, folgorante e inevitabile. Ma nel lieve inganno di questa tua prestidigitazione ci riservi l’ulteriore sorpresa di un sottile malessere, di un inquietante spaesamento.
E dunque ci accompagni con questi dipinti attraverso la loro luce, la loro forma, la loro voce, al confine del tuo abisso d’ombra; ci poni trasversalmente all’Enigma, al suo prendere forma di Mistero.
Un giorno nel tuo studio, chiacchierando stretto stretto del nostro lavoro, citasti (a mente) Tagore: “Ciò che sei non vedi e ciò che vedi è l’ombra tua”. Dunque il fantasma del doppio e il disvelarsi dell’Autentico nell’accecamento, che J. L. Borges ciecoveggente appunti, ma soprattutto poeta formula con disarmante soavità così: “La cecità è una clausura me è anche una liberazione una solitudine propizia alle invenzioni, una chiave e un’algebra”.
Questa tua pittura e le sue “invenzioni”, sembra dunque essere la conferma di questa vertiginosa condizione di veggenza per accecamenti e folgorazioni.
E questo, non sembra venir contraddetto dal tuo sguardo appuntito a volte, per quelle parti dell’immagine che attivano una tua maniacale ossessione per trama e ordito della superfice pittorica. Questa tua particolarissima texture di segno e colore così commovente e sensuosa, per un nulla trasalire del tono e dello scarto cromatico (una prassi di “rigatino” rinascimentale ritrovata) è pensabile solo dentro un’identità d’instancabile pazienza, antropologicamente femminile, che nella pratica del gesto minuto ed infinitamente ripetuto, sembrerebbe rivelare appunto la pena e il piacere di un rituale culturalmente coercitivo.
Ma al di là dell’analisi interna al “fare” e delle sue ragioni profonde và detto della qualità a volte straordinaria della tua pittura Antonella, che sembra venire anche da un’adesione tattile all’immagine pensata. Adesione ad una sua nucleare motivazione spesso oscura, ma dicevamo, infericamente o angelicamente ineluttabile.
Se ne dovrebbero essere accorti anche quegli amici e quei committenti ecclesiali per i quali hai prodotto, a mio vedere, immagini a tema sacro con approcci all’iconografia tradizionale assolutamente originali e dalle quali si coglie quanto ti siano congeniali climi e suggestioni che affondano negli abissi dell’interiorità e della spiritualità. Se ci si guarda attorno, in quest’area tematica si vede una diffusa mediocrità invece.
Ritengo opportuno spendere due parole per rivelare la tua ostinazione nel “chiamarti fuori” dai giochi modaioli dei neo-neo-avanguardismi, questi ultimi già acquisiti peraltro ai dettati accademici e a pratiche di onanismi affabulatori a danno di giovani disorientati.
Hai scelto di definirti attraverso il luogo concettualmente più convenzionale dell’arte, il più consolidato per la sua tradizione e per la sua storia: la superfice perimetrale (un quadrato o un rettangolo) della tela e in quell’alchimia mai del tutto spiegata che è la Pittura. Secondo i salotti ipertroficamente intellettuali, elitari e transnazionali della cultura estetica più avanzata, la pittura non và più di moda a meno che non venga sovvertita dall’interno, perseguendo una “nuova” linea di Brutta Pittura. Per il nuovo sistema dell’arte, per i suoi ideologi (vere e proprie forme di stupidità intelligente) si affermano trend di “volgarità”, trend di “arroganza” che hanno il suono del prodotto di consumo, quello del sistema affaristico coniugato troppo spesso ad una spettacolarità provocatoria, conclamanti di fatto un mondo senza senso, privo di utopia di vita.
Tu come altri hai deciso di dipingere una buona pittura, nonostante tutto. Siamo dunque ernie sopravvissute, un po’ poeti un po’ sognatori incoscienti che resistono aristocraticamente al farsi di questo brutto progetto del mondo.
È bene essere consapevoli che né noi né loro si è rilevanti per la Storia e questo ricondurre tutta la questione a, se si sia dentro o fuori il sistema dell’Arte è sterile.
Con la pittura ci è dato percorrere le inalienabili solitudini delle nostre individualità: infatti l’opera “illumina”, “accende”, in senso stretto non comunica. Peraltro la comunicazione e l’Informazione sono oggi soggetti di un’orgia multimediale molto aggressivi e non ci sembra ci riguardino.
Ci è dato intraprendere più umilmente, un viaggio conoscitivo nel nostro “sé” profondo. Ma lì, al fondo appunto, c’è il mondo, c’è l’umano, c’è una porzione infinitesimale del divino che poi, a pensarci bene non è così poca cosa.
Questa tua personale monotematica presso l’Accademia del Costume, costituirà per quanti di noi avranno la fortuna di vederla e per quanti a Roma amano ancora la pittura, l’occasione per conoscere un nucleo di lavoro di straordinaria qualità e connotato dall’unicità della tua voce.
Sò che questi dodici costumi t’hanno condotto, attraverso nuovi dipinti ai quali stai attualmente lavorando, a “luoghi” di più decisa labirinticità. A un frammento di verità rivelatoci dunque ne segue un’altro e ciò ci fa emozionati. Forse emozionanti.
Un abbraccio da
Gianluigi
Roma, Agosto 1998
P.S.: Questa lettera-testimonianza è stata scritta alla trentennale amica
Antonella Cappuccio da Gianluigi Mattia, pittore egli stesso.
1998, Mantova – Palazzo Ducale. Mostra “Amor Sacro, Amor Profano”.