La pittura post-concettuale di Antonella Cappuccio
di Giorgio di Genova
Antonella Cappuccio ha sempre oscillato tra nostralgia dell’armonia classica e pulsioni di dissacrazioni, per dirla in sintesi, tra Apollo e Dioniso, che poi sono le due facce della stessa medaglia.
Nella sua pittura, che si è sempre nutrita della storia della pittura, il bello ed il deforme si sono alternati. E se il primo aspetto è stato conseguenza della sua versatilità nel disegno e nella tecnica pittorica, che le ha permesso un figurare risonante di echi antichi, il secondo aspetto proprio dal primo è sempre scaturito, nel senso che appunto nella sua capacità di restituire ai contemporanei memorie dei passati e gloriosi secoli della pittura italiana ha trovato lo stimolo a spingersi oltre per rimescolare le carte dell’armonia apollinea in modo da ridistribuirle per fare i suoi solitari dissacranti. Così da Mantegna e Botticelli a Raffaello Antonella ha saputo trarre ispirazione per soddisfare la sua nostalgia di armonia classica e contestualmente le sue riletture post-concettualiste. Ma si badi, il suo è stato un post-Concettualismo che, mentre da un lato implicitamente rifaceva il verso al cosiddetto ‘ritorno alla pittura’, inventato agli inizi degli anni Ottanta, appunto dagli stessi critici che avevano sostenuto Concettualismo, Comportamentismo e collateralità come i becchini della pittura, dall’altro lato lo vivisezionava, in taluni casi irridendolo con obiezioni pesanti e sostanziali. Per quei critici la ‘resurrezione’ della pittura si era verificata con il ritorno al museo dell’arte Colta e dell’Anacronismo. Ad essi la Cappuccio ha obiettato con un suo ritorno al museo, che non fosse puro esercizio di bravura tecnica ed esecutiva, tipo Carlo Maria Mariani, o di eclettismo postmoderno, tipo Stefano di Stasio. Infatti ha messo la sue innegabile bravura tecnica ed esecutiva al servizio di un nuovo vedere il museo. O meglio di un ‘saper vedere’ il museo con gli occhi dell’attualità, che ormai aveva introiettato il Concettualismo, ma nel suo caso coniugandolo con talune lezioni delle avanguardie storiche, per esempio la scomposizione cubista, la dissacrante irriverenza dadaista e la compenetrazione futurista.
Così, ecco zampillare nel 1980-81 le dinamiche proliferazioni e le compenetrazioni mantegnesche (da Cristo Morto, da Presentazioni al Tempio), ecco poi le originali riflessioni su Botticelli sia nel ribaltamento d’inquadratura della famosa Primavera, la cui scena Antonella spia da dietro, offrendocene una visione inedita (Il commiato, 1982), sia nella scomposizione e ricomposizione, in una sorta di riadattamento appunto della lezione cubista al post-Concettualismo, di Venere e Marte del pittore mediceo nel suo omonimo trittico, in cui le simbologie erotiche vengono evidenziate in particolari allusivi a falli e pelurie pubiche.
Ecco, ancora, nel 1984 la triplicazione della Fornarina di Raffaello (La Fornarina) e la doublure speculare nel trittico ad ante anantiornorfiche La bella giardiniera, dove la testa della Madonna raffaellesca, incombente sulla duplicazione del San Giovannino, nella sintesi condensativa dell’immagine appare mostruosamente deformata.
Bastino questi pochi esempi a chiarire quanto siano radicati nella Weltanschauung della Cappuccio il bello ed il suo contrario, il classico rinascimentale e l’Antirinascimento, l’armonico ed il deforme, la misura e l’entropia, insomma l’apollineo ed il dionisiaco.
Dopo la fase speculare, che me la fece invitare in talune mostre di Narciso Arte, Antonella ha aderito alla Nuova Maniera Italiana, passo che ho sempre considerato come una sorta di personale saison en enfer, e per questo non l’ho condiviso. E’ durante questa saison en enfer neomanierista che ella ha dato fondo al primo polo della sua natura in maniera (e mi si passi il bisticcio) troppo costruita da rasentare in più di un’occasione l’inautenticità. Il dover sottostare ai precetti di una teoria critica ideata al rimorchio dei successi di mercato dell’Anacronismo, e dell’Ipermanierisino, in realtà aveva privato la Cappuccio delle prerogative migliori della sua pittura, cioè la libertà ideativa, lo sguardo critico e la necessità dell’obiezione concettualmente rigenerativa.
Una volta staccatasi dai dogmi critici della Nuova Maniera, è progressivamente montata in lei una ripulsa dei trascorsi neomanieristi, al punto da sentire l’esigenza di un gesto dissacratorio verso essi, un gesto che nel contempo fosse esorcizzante ed anche pregnatamente liberatorio. E per esorcizzare tali suoi trascorsi quale migliore atto poteva compiersi se non quello di distruggere La Veste, una delle opere dipinta nel 1991 che per importanza e imponenza (infatti misurava 2 metri per 4) simboleggiavano la sua militanza nella Nuova Maniera.
Ed è infatti quanto ha fatto Antonella.
Ma, a differenza degli altri pittori che distruggono completamente e definitivamente le opere che non li soddisfano, la nostra pittrice ha fatto letteralemente a pezzi il quadrone del ’91, ricavandone ben 15 frammenti di pittura, attraverso stesure coprenti che lasciassero a vista solo quei particolari che potevano riacquistare un significato autonomo e sulle zona coperte ha trascritto la parte conclusiva di un testo scritto da Lorenzo Ostuni per la mostra del 1987, guarda caso, intitolata Orpheus, così che anche il testo è stato fatto a pezzi.
Ora è noto che il mito di Orfeo si compie proprio con lo smembramento da parte delle Menadi del musico e poeta, apollineo di natura e dionisiaco di destino.
Chi si diletta di psicoanalisi può individuare diverse spiegazioni che gettano luce sul comportamento da Menade di se stessa della Cappuccio.
Con un tale smembramento della sua pittura Antonella ha punito se stessa, ha superato un periodo del suo passato, ma nello stesso tempo ha confessato che non tutto quello che aveva dipinto nella stagione della Nuova Maniera era inautentico e quindi da buttare nel personale fiume Ebro, come avevano fatto le Menadi con le membra di Orfeo.
Ecco, allora, che nella sua smania di negare La Veste, scena campestre posta sotto l’egida di Eros e nella quale si possono individuare criptiche citazioni della botticelliana Primavera, la Cappuccio ha fatto calare la notte dell’azzeramento sulla prova della sua ‘colpa’ neomanierista e dal buio firmamento di essa, costellato di scritture distribuite non proprio a caso, come proverebbe il frammento in cui campeggia il nome, alquanto semanticamente appropriato per tale operazione, di ‘Orpheus’, ha fatto riaffiorare brani (e stavo per dire brandelli) della sua pittura di allora. Qua una gamba, lì un cestino di frutta, discendente di quello caravaggesco. Qua la svolazzante veste, lì una testa femminile che fa capolino. Altrove un ramo ricco di fogliame in cui s’incuneano sillabe e lettere di parole obnubilate, uno squarcio di cielo, che sopra la tromba in altro frammento assume la forma di un fumetto, e ancora tanti momenti iconici con riferimenti sessuali sia manifesti, quali il nudo della giovinetta dalla testa cinta di pampini, lo squarciato abbraccio della coppia, l’ostensione della vagina con a lato le mani che si stringono nella foia del desiderio, la coscia virile da cui il pene è separato, sia metaforici, quali il fico tagliato a metà e con la rossa polpa fessurata, e la punta del piede con l’alluce che è proteso verso tale simbolica allusione al sesso femminile, allusione rafforzata da quel sovrastante ‘memorandi’, trait d’union dei due elementi, a ribadimento di una vis dissacratoria mai sopita. In fondo con tale atto la pittrice faceva rinascere dalle ceneri della Nuova Maniera la sua pittura, che da allora ha preparato il suo cammino verso altri orizzonti. E’ indubbio che dalla notte dell’azzeramento siano nati i tondi con i cieli notturni incentrati sulle costellazioni dello Zodiaco. E, considerato il significativo precedente dei pezzi smembrati de La Veste, non credo sia un caso che nella sua ultima produzione la nostra pittrice abbia preso a far dialogare con testi di poeti e scrittori classici le sue immagini nel recente ciclo che Antonella definisce il proprio esame di maturità, classica appunto. Quella maturità che per gravi ragioni di famiglia non potè conseguire in gioventù.
2002, Roma – Castel Sant’Angelo. Mostra ‘Se una mattina camminando’