I Tarocchi di Antonella
L’arte di Antonella Cappuccio.
Un’esplosione di creatività! Non può essere che questa la definizione più adatta per descrivere in sintesi l’approccio di Antonella Cappuccio alla dimensione artistica, ma – in definitiva – anche il suo atteggiamento nei confronti della vita e della bellezza.
Del resto, per chi, come Antonella, è nato ad Ischia, sarebbe assai difficile liberarsi di quella gioia di vivere che irrompe nell’anima degli isolani, cresciuti con il sole nel cuore e l’azzurro del mare negli occhi.
Se si ha la fortuna di entrare nel suo studio di Trastevere, a Roma, non ci si può non stupire dell’ordinata confusione che regna in quei locali che, in certo senso, ricordano l’antro dell’alchimista.
Intorno al tavolo, ai cavalletti, ai tubetti dei colori si avvicendano, appesi alle pareti, opere di tutte le dimensioni e materiali, secondo le necessità e le commissioni del momento.
È come entrare in una galleria d’arte il cui direttore cambi continuamente i quadri da esibire per i fortunati avventori… in altre parole, non ci si annoia mai di guardare perché ogni volta che si entra ‘l’arredamento’ è diverso.
Non basta, però, lo studio di Antonella è anche il punto di riferimento per giovani artisti o amanti dell’arte che trovano nella pittrice di Ischia (anche se lei dice che è napoletana; ma in realtà è “napoletana al quadrato”) un grande, insostituibile, punto di riferimento.
Così, quando si mette piede nel suo ‘regno’ si viene rapiti da una specie di turbine di simpatia e di pirotecnica allegria che tracima da una personalità che non può lasciarti indifferente.
Allora Antonella pian piano si rivela e racconta con la più naturale affabilità di sé, della sua vita, delle sue gioie e delle sue cure, con una levità solare che affascina; anche perché – con i quadri che immancabilmente scarta ed esibisce davanti a te (cavandoli dagli ambienti dello studio adibiti a deposito) – arricchisce il suo narrare, come se fossero fotogrammi di un film a lieto fine di cui scopri piano piano la trama.
Tuttavia, non ci si deve lasciar ingannare da questo scoppiettante modo di essere e di pensare, ritenendo che, tutto sommato, quello di Antonella Cappuccio sia più intrattenimento che arte vera. Nulla ci potrebbe essere di più sbagliato perché i fatti non sono per nulla questi.
La produzione artistica di Antonella Cappuccio ha una posizione di rilievo nel panorama artistico italiano del XX e di questi primi due decenni del XXI secolo.
Capace di piegare ai propri scopi qualsiasi tecnica, da quelle tradizionali alla pittura su plexiglass, dalle opere realizzate con ago e filo fino all’ultima trovata (o meglio scoperta) delle carte colorate, Antonella è un’artista a tutto tondo. La sua arte e la sua maestria, infatti, le permettono di passare con la stessa naturalezza dal ritratto (basterà ricordare quelli di Carlo d’Inghilterra, di Rita Levi Montalcini, per non parlare di Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, fino a papa Francesco) alla pittura sacra (si rammentino le decorazioni per chiese come quella di Santa Caterina della Rota a Roma, quella dedicata a San Massimiliano Kolbe a Giuliano, in provincia di Napoli, fino al Polittico nella Sala delle Udienze Paolo VI) attraversando il tema del paesaggio.
Questo immenso, raro, bagaglio culturale e tecnico è il risultato di una vita dedicata a coltivare la creatività visiva, prima per lavoro e poi, sempre più, per un’incoercibile necessità di esprimersi e di dire agli altri, con le proprie immagini, quello che si ha dentro.
Entrò nella grande famiglia della RAI, poco più che ragazzina, quando l’Italia sognava in bianco e nero. Ha lavorato lì, come costumista e scenografa, per televisione, cinema e teatro ben trenta felici primavere. È stata allieva per i costumi, di Maria Baroni e Dario Cecchi, due mostri sacri per la cinematografia italiana, nel campo della realizzazione dei costumi (basterà ricordare La tratta delle bianche e l’Odissea televisiva). Inoltre, Cecchi era anche scenografo e pittore. Un’esperienza questa, che è stata una vera palestra e che l’ha messa nelle condizioni di non trovare mai ostacoli alla propria spinta creativa. Antonella, infatti, ha sempre una soluzione originale, personale e, talora, geniale per qualunque problema espressivo le si pari davanti. Del resto, esempi e modelli importanti con cui misurarsi ed avere un rapporto di collaborazione non le mancavano: da Luigi Squarzina fino ad Orazio Costa, da Anton Giulio Majano a Lina Wertmuller e Paolo Poli, ossia tutti i protagonisti della grande stagione televisiva, teatrale e cinematografica italiana. Poi, il suo mondo interiore è esploso come il rigurgito frizzante del mosto d’uva e Antonella ha lasciato una professione certa per dedicarsi completamente alla pittura.
La Nuova Maniera Italiana.
L’esperienza artistica più importante, quella che connota la tipologia pittorica dell’arte di Antonella Cappuccio, è stata sicuramente la “Nuova Maniera Italiana”. Fu questo un movimento con diversi nomi e definizioni (“Pittura Colta”, “Anacronismo”, “Citazionismo”, “Ipermanierismo”), che si sviluppò soprattutto a Roma, ma con un respiro nazionale, grazie al quale si ruppe quella sorta di monopolio irrigidito della pittura astratta, di quella dell’Avanguardia italiana e dello sperimentalismo ad ogni costo che aveva relegato le tecniche tradizionali nella soffitta delle cose dimenticate e inutili. Come ovvio, la figurazione non è la stessa dei secoli passati, ma la profondità e la complessità sì. Ci sono poi molte declinazioni in questo ambito, ad iniziare dall’algido recupero neoclassico di Carlo Maria Mariani che ha dissodato il terreno alla luce del rinascimento e del barocco, sia pure con un approccio concettuale e minimalista, assai diverso da quello, per esempio, di Franco Piruca. Qui, invece, il disegno è ben più vicino a certo Magritte, con un’imprimitura che assorbe ogni brillantezza del colore, sul ciglio di un percorso surreale e straniante che inquieta. Così, i compagni di strada di Antonella Cappuccio furono, Alberto Abate che aveva la legnosa stilizzazione del Manierismo, Stefano Di Stasio e i suoi luminismi seicenteschi, Paola Gandolfi, Bruno d’Arcevia con una maniera vicina al Parmigianino, arricchita da un virtuosismo, talora, al limite del fotografico, Omar Galliani e Umberto Bartolini, tanto per fare qualche nome. A teorizzare il percorso artistico, ci pensarono critici della levatura di Italo Tomassoni, che scrisse, nel 1985, con la prefazione di Giulio Carlo Argan, il suo Ipermanierismo dove tracciò le linee-guida del movimento. Ci fu, però, una convergenza, perché in quegli stessi anni Maurizio Calvesi parlava di Anacronismo, mentre Marisa Volpi, sosteneva Piruca e gli altri ne “I quaderni della Tartaruga” di Plinio de Martis che, da un lustro, aveva presentato la nuova corrente artistica nella sua celebre galleria. Fu allora, nella galleria “La Tartaruga”, dove avevo esposto pure io nel 1981, che sentii parlare per la prima volta di Antonella Cappuccio la quale, proprio quell’anno, esponeva a Mantova nella Casa del Mantegna. Il suo percorso gravitava nell’orbita di Giuseppe Gatt che – in quel periodo – mi aveva invitato a parlare della mia pittura nelle aule dell’Accademia di Belle Arti di Roma, dove non immaginavo davvero che, più tardi, sarei andato ad insegnare, diventando collega del compianto Professor Gatt, come tutti lo chiamavano. Dunque, Antonella l’ho conosciuta prima da collega e poi da critico, leggendo il bel libro, edito da De Luca nel 1989, che proprio Giuseppe Gatt scrisse insieme a Claudio Strinati. Le opere di quegli anni rappresentano un momento importante del percorso della Nuova Maniera Italiana, dove il recupero della pittura s’intreccia con l’evocazione di una dimensione mitologica dell’antico che si rivela in grandi tele come quella intitolata La veste, lunga più di quattro metri e alta più di due. Nel bosco dell’Arcadia una ninfa (che poi è un autoritratto idealizzato) danza felice e, con assoluta levità, perde la veste rivelando la bellezza del suo corpo nudo. Potrebbe essere la metafora della pittura di tutti i tempi, ma soprattutto di quella di allora, quando le parole di una critica divenuta ormai ideologia, impedivano ai più di godere della gioia sprigionata dal fare e dal dipingere alla bella maniera italiana. Così, nel 1985 Antonella Cappuccio presentò la prima personale concepita secondo i canoni della Nuova Maniera Italiana, cui fecero seguito quelle del 1987 a Milano, del 1988 a Lione e le numerose collettive tra cui non si può non ricordare l’XI Quadriennale d’Arte di Roma del 1986, di cui Giuseppe Gatt era il Segretario. Bisogna, poi rammentare le mostre del 1986 e del 1988 a Firenze in Palazzo Strozzi, a Venezia nel 1987 per la Biennale d’Arte Sacra, né si possono dimenticare – nel 1989 a Los Angeles –, la collettiva intitolata Four Artists of the New Italian Manner, poi, le personali a Rio de Janeiro, a Bari e, infine, nel 1990 a Roma. L’esperienza di Los Angels presso la Mayer Schwarz Gallery, fu condivisa con altri tre pittori della neonata corrente e segnatamente, Antonio D’Acchille, Bruno d’Arcevia e Alessandro Romano. Personalità artistiche diverse, ma in un certo senso complementari, che condividevano – con entusiasmo – un percorso di creatività al quale Antonella dette una veste mitologica quando dipinse un quadro che è una sorta di manifesto del movimento: Ratio fecit diversum. Il titolo, in perfetto stile “pittura colta”, è una citazione da San Bernardo di Chiaravalle, o meglio dall’Epistola Sancti Bernardi De revisione cantus Cisterciensis, et Tractatus cantum quem Cisterciensis Ordinis ecclesiae cantare che la filologia attribuisce – nella stesura – a un anonimo, ma che, nella sostanza, riferisce della concezione dell’arte che aveva il mistico filosofo e abate di Clairvaux. La riflessione, nella lettera – in realtà – è quella sugli antifonari e sulla musica; ma (al di là dell’idea simbolica di armonia), la frase diviene sintesi del concetto stesso di razionalizzazione del cosmo e della creazione completamente pervasa dalla ratio divina che, però, si diversifica nella moltitudine delle forme, comunque riconducibili al disegno trascendente di Dio. Antonella Cappuccio, non senza una sottile ironia, ma anche con una visione, in certo senso, ‘teologica’ della pittura, impiega questa frase come titolo di un’enorme tela (un metro d’altezza per tre di larghezza) che rappresenta i protagonisti della Nuova Maniera Italiana. Sono riuniti in un arcadico boschetto, con ruderi classicheggianti su cui dipinge una ninfa-Antonella che, nuda, dà le spalle al pubblico e guarda gli altri che sono, da sinistra, Bruno d’Arcevia, seduto accanto a un libro aperto, Alberto Abate in piedi e nudo anche lui come un novello Febo, Giuseppe Gatt bardato d’armatura e Paola Gandolfi. Allora la frase a sfondo cosmologico finisce per descrivere un altro universo, quello degli artisti e dei teorici che si sono lanciati in questa nuova avventura nella quale credono profondamente e che, in quel momento, si configura come il propellente della loro vita interiore. Sono declinazioni (diversum) di una medesima idea di arte (ratio) che ciascuno interpreta a proprio modo, ma con uno stesso scopo: recuperare la bellezza della pittura e della poesia.
Un progetto interessante.
Antonella Cappuccio, però, non è persona (né donna, né artista) che possa farsi incasellare in una formula o in una cifra stilistica, per grande e importante che sia. Ha bisogno di spazi liberi, aperti, battuti dal vento della creatività senza costrizioni. Lo spiega lei stessa con parole chiare, precise ed inequivocabili: «Soltanto nel 1994, il desiderio di solitudine, di una ricerca più personale ha preso il sopravvento sullo spirito di gruppo, ed ho ripreso la mia strada. Due anni dopo ho iniziato a lavorare ad un nucleo tematico sui costumi di scena. E così, di rappresentazione in rappresentazione, d’incantamento in incantamento, per quelle strade inevitabili che sono la ricchezza (ed anche un po’ la civetteria) di chi fa un lavoro creativo, mi sono trovata al centro del Labirinto.».Labirinto metafora della vita e dell’arte, proprio come la freccia che, passando dal rosso all’azzurro, attraversa, luminosa, un’altra sua opera, alta solo trentacinque centimetri, ma lunga due metri, intitolata, non per nulla Memoria. Memoria, infatti, è, prima di tutto, quella dell’arte che arricchisce la ricerca della pittrice di Ischia e magari passa dalla ripresa degli abiti delle grandi opere d’arte, svuotati, però, dei suoi personaggi e lasciati soli sul palcoscenico della pittura per godersi un momento di assoluto protagonismo. Sull’onda di questa insofferenza per le ‘briglie’ alla sua scatenata fantasia, Antonella è passata di esperienza in esperienza, come l’ape di fiore in fiore, per giungere a quella recente dedicata a Pinocchio e realizzata con ago, filo e sacchi di iuta, piuttosto che con colori e pennelli. Uno smisurato libro fatto di tela, morbido e divertente, ma con una sua morale, è stato, infatti, il suo contributo alla bella mostra del 2016 curata da Marco Capitelli e intitolata Pinocchio non è un bugiardo. Del resto, la voglia di sperimentare non ha mai abbandonato la pittrice e la riprova, oltre che nell’opera dedicata al personaggio di Collodi, sta nella scelta ultima di utilizzare carte colorate per realizzare le sue opere. Ne è venuta fuori la bella mostra del dicembre scorso (2016) tenuta a Parigi e presentata da Cesare Biasini Selvaggi. Un dvd spiega visivamente e con parole semplici (quella di Antonella che, mentre parla, lavora), quale sia questa nuova tecnica da lei inventata. Non si tratta di collage in senso stretto, si basi bene: quello che facevamo da ragazzini con il quadernino di fogli colorati. La nostra pittrice possiede a studio cesti stipati da rotoli di sottili carte colorate che taglia con le mani e incolla con il vinavil sul supporto opportunamente preparato. Vederla realizzare queste opere è davvero affascinante e il risultato è sorprendente perché il pezzetto di uno stesso azzurro può diventare la sfumatura di un cielo o l’ombra di un sopracciglio e quello di uno stesso rosso una bocca carnosa o il petalo di un fiore, solo con un gesto della mano e l’uso sapiente della colla.
Non stupisce, allora, che – sull’onda di questa spinta a misurarsi sempre con nuove sfide – Antonella Cappuccio abbia voluto affrontare l’antico tema dei Tarocchi, naturalmente a modo suo.
Forse è naturale che sia io a curare questa esposizione perché toccò a me l’occasione di veder nascere l’idea in embrione.
Giusto nel febbraio di due anni or sono andai a vedere una mostra a due voci nella bella Galleria di Carla Mazzoni, in via Mompiani, nel quartiere Prati, a Roma. L’esposizione era dedicata ad Artemisia Gentileschi, per la quale, oltretutto, stavo curando – in quel periodo – la consulenza storica per un docu-film, come si dice oggi, per Sky International.
Le protagoniste erano due: Simona Weller e, ovviamente, Antonella Cappuccio.
Fu allora che Antonella mi disse che lei e Simona avevano in mente di realizzare un lavoro a quattro mani dedicato ai Tarocchi.
La saggista, commediografa e pittrice, nota oltretutto per il libro-inchiesta Il complesso di Michelangelo, avrebbe curato la parte inferiore delle “carte” con una frase o una scritta a commento e Antonella avrebbe realizzato l’immagine dando una sua personale interpretazione dei Tarocchi.
Dopo qualche tempo, in visita nel suo studio di via Goffredo Mameli a Trastevere, vidi le prime realizzazioni di queste singolari carte, ma venni anche a sapere che Simona Weller non era più disponibile a completare le opere che Antonella stava realizzando.
L’entusiasmo della pittrice di Ischia, non sembrò farsene un problema o una preoccupazione anche perché aveva, manco a dirlo, il suo asso nella manica.
Fu un incontro estremamente piacevole e stimolante quello con Gabriella Farina, che insegna “Filosofia contemporanea” all’Università di Roma Tre, subito segnato da una complicità intellettuale che si andava organizzando intorno all’affabilità di Antonella, alla bellezza delle opere, oltre che intorno a un piatto ben cucinato, annaffiato da un gustoso bicchiere di vino. Nacquero così gli aforismi che la studiosa è andata a piluccare nella storia del pensiero umano, a commento degli Arcani maggiori dipinti con grande maestria da Antonella Cappuccio.
Brevi note sui Tarocchi.
Quando ci si avvicina all’argomento dei Tarocchi, in genere, si soffre da una parte di certo timore reverenziale e dall’altra, si pensa esclusivamente alla divinazione, all’esoterismo o, in maniera più banale, alla zingara che ci predice il futuro. In realtà, simili aspetti si collegarono con queste carte soltanto in epoca piuttosto recente, ossia nel XVIII secolo e precisamente, da quando l’esoterista francese Court de Gebelin, nel 1781, pubblicò i nove volumi del suo Le Monde Primitif che affrontava questi temi e su cui torneremo brevemente più avanti.
Probabilmente il gioco delle carte in generale si deve all’esportazione in Europa di questa pratica ludica da parte dei soldati egiziani della dinastia dei Tulunidi, noti come Mamelucchi. Si trattava di militari di origine servile, bene addestrati all’arte della guerra che, di fatto, furono utilizzati anche dalle dinastie successive dei Fatimidi e dallo stesso Saladino che mise fine alla dinastia e seguitò a terrorizzare il Mediterraneo con la pirateria navale, quella dei Saraceni.
Da qui nacquero i semi delle carte, ma l’idea degli Arcani maggiori, non per nulla detti anche “Trionfi” è adombrata nel capolavoro letterario di Francesco Petrarca che porta proprio questo titolo.
Così, nel celeberrimo poemetto, troviamo sei allegorie figurate. Sono quelle del Trionfo dell’Amore, vicino, nel concetto di fondo, alla carta de L’innamorato (VI), del Trionfo della Castità, che certo ricorda l’arcano della Temperanza (XIV), del Trionfo della Morte che ha una corrispondenza diretta con la XIII carta. Altre analogie sono fra il Trionfo della Fama e l’arcano del Giudizio (XX), come pure fra il Trionfo del Tempo e la carta dell’Eremita (IX). Infine, nel Trionfo dell’Eternità immaginato da Petrarca, non è difficile scorgere corrispondenze con la carta del Mondo (XXI). Naturalmente, non si vuole, qui, sostenere una derivazione diretta perché, se è vero che la costante presenza dei carri su cui si trovano i Trionfi petrarcheschi si può spiegare con la contaminazione delle immagini dei Pianeti come allora erano rappresentati, è impossibile, rintracciare nelle rime del grande poeta figure come La Papessa o L’appeso. Tuttavia, l’analogia può spiegare il clima nel quale dovette prender forma l’idea di queste carte che venivano utilizzate nelle corti italiane per giocare e passare il tempo. Non è un caso che alcuni dei più importanti mazzi giunti fino a noi siano stati contrassegnati dai nomi gentilizi degli antichi proprietari e, verosimilmente, committenti. Non si possono non ricordare, infatti, il mazzo Visconti, che in genere si ritengono dipinti, fra il 1442 e il 1447, per il ramo cadetto dei Mordone, conservati presso la sezione manoscritti della Biblioteca dell’Università di Yale. Basta osservarli, con le figure stagliate su un fondo d’oro zecchino decorato a punzonatura, per capire che la committenza era assolutamente di rango e pensare, in questo caso, al nome di un miniatore importante come Michelino da Besozzo. Così, un altro mazzo notevole è quello denominato Visconti-Sforza che risulta realizzato, con caratteristiche consimili, forse dal pittore Antonio Cicognara, verso il 1484, per il cardinal Ascanio Sforza. Ancora un altro mazzo, incompleto, attribuito a Bonifacio Bembo, è conservato presso la Biblioteca di Brera a Milano.
Un caso a parte è quello che riguarda i cosiddetti Tarocchi del Mantegna, per via della tradizionale attribuzione al grande artista veneto di adozione lombarda. Privo di quelli che, in gergo tecnico, si chiamano “arcani minori”, ossia i semi da uno a dieci con spade, bastoni, coppe e denari, consta di cinquanta carte, realizzate come calcografie incise a bulino che illustrano gli aspetti della società e del mondo, secondo le concezioni di allora. Così, le prime dieci riguardano la condizione umana, dal “Misero” al “Papa”, le altre dieci Apollo e la corte delle Muse, la successiva decina è dedicata alle Arti Liberali, la quarta decade ha per argomento le sette virtù e i principi cosmici, infine, le ultime dieci spiegano il Cosmo, fra teologia e astronomia tolemaica. Il loro scopo, molto probabilmente, era quello di essere utilizzate come gioco per capire il mondo e la società secondo un metodo mnemotecnico di cui, però, si è perduta la chiave.
Tutto questo non vuol dire che i Tarocchi fossero un gioco solo per ricchi. Anzi, la loro diffusione e il loro successo, tanto che se ne parla ancora oggi, si deve alle varianti meno ricercate, come quella dei cosiddetti Tarocchi di Marsiglia i quali, a dispetto del nome, furono probabilmente inventati nell’Italia settentrionale nel XV secolo e, poi, attraverso la Svizzera diffusi in tutta Europa. A differenza delle versioni più blasonate, erano realizzate con la stampa xilografica e poi colorate a mano. Erano il gioco preferito di soldati, nonché di frequentatori di bettole e taverne, come dimostra una lunga serie di quadri di genere che attraversano tutto il XVII secolo.
L’impiego di queste carte come strumenti di divinazione, invece, derivò, come si diceva nelle prime righe di questo testo, dalla convinzione di Court de Gebelin che la loro origine dovesse risalire all’antico Egitto e che tutta la sapienza di quel popolo fosse stata riassunta in quelle affascinanti immagini che a tutti erano note.
Pochi anni più tardi, un certo Aliette lesse questa teoria e, sulla base della tradizione corrente, nel 1788, disegnò quelli che sarebbero dovuti essere i Tarocchi egizi, secondo de Gebelin. Le carte da lui battezzate Tarocchi Ettelia (il suo nome letto da destra) ebbero un grande successo e non solo Aliette divenne ricco e famoso, ma introdusse nella cultura europea la convinzione che quelle ventidue figure fossero il risultato di una sapienza occulta e antichissima.
Tuttavia, chi rese strutturale e stabile una simile nozione fu Eliphas Lévi, pseudonimo di Alphonse Louis Constant, esoterista del XIX secolo che attribuì a ciascuno degli Arcani maggiori una lettera dell’alfabeto ebraico, sfruttando il fatto che entrambi ammontano al numero di ventidue.
L’opera di Eliphas Lévi che, tra l’altro, pubblicò nel 1860 una Histoire de la Magie, fu un punto di riferimento, tanto che dai suoi studi derivarono i primi mazzi di Tarocchi espressamente disegnati con intenti esoterici, da quelli di Oswald Wirth (1889) a quelli di Aleister Crowley (1942) un controverso occultista inglese che ne affidò la realizzazione alla pittrice Frieda Harris.
I Tarocchi di Antonella: gli Arcani maggiori.
A questo punto si capisce bene perché Antonella Cappuccio si sia voluta misurare con i Tarocchi. Anzi, a dirla tutta, sarebbe stato strano il contrario, giacché molti artisti si sono lasciati affascinare dal tema. Così, converrà ricordare che, proprio recentemente (fino ad aprile 2017), una bella mostra a Roma in Palazzo Braschi, curata da Marinella Mascia Galateria, ha recuperato la collezione delle carte volute da Paola Masino la quale chiedeva ai suoi amici artisti d’interpretare la tradizione di queste carte, che furono realizzati da Corrado Cagli, Carlo Levi, Cesare Zavattini, Jean Cocteau, Dario Cecchi, Mino Maccari, tanto per fare qualche nome. Sono poi celebri i Tarocchi di Salvador Dalì e quelli monumentali di Niki de Saint Phalle che ne ha fatto addirittura un parco, non lontano da Capalbio. Gli Arcani maggiori pensati e realizzati da Antonella Cappuccio – con la complice competenza di Gabriella Farina che ha trovato nella sapienza del mondo il giusto commento – rientrano pienamente in questo nobile filone che si è dipanato dai secoli scorsi fino ai giorni nostri. Marco Bussagli